giovedì 8 maggio 2014

I bambini e i disturbi alimentari

fonte: pinterest
E' da tempo che medito di parlare riguardo a questo argomento che quando lavoravo all'Università ho approfondito prevalentemente su adolescenti e giovani adulti, ma che le ricerche recenti mostrano come questo disturbo stia presentandosi in età sempre più precoci. 
il rischio che vedo da un lato è l'allarmismo, infatti i bambini veicolano gran parte dei loro vissuti sul cibo e a tavola possono esprimere rabbia, disagio, o cercare l'attenzione dei genitori non mangiano o riempiendosi la bocca... ma questi sono comportamenti, che anche se non del tutto sani, e spesso vissuti come semplici capricci restano transitori e se i genitori sono bravi a non etichettare o dare loro troppo peso si esauriscono da soli. Ma dall'altro lato credo che l'informazione e la consapevolezza che possano esistere anche altre situazioni da tenere sotto controllo possa essere importante perchè in alcuni casi nascondono disagi più profondi...per questo ho deciso di affrontare anche questo tema.


Contrariamente a ciò che si è soliti pensare, i disturbi del comportamento alimentare non sono caratteristici solo dell'età adolescenziale ma possono manifestarsi anche nei bambini molto piccoli, anche se il picco si attesta a 14 anni e tra i 18-20 anni. 

Va innanzitutto precisato che è più frequente incontrare nell’infanzia quadri di disagio alimentare più che disturbi veri e propri, vale a dire situazioni, spesso transitorie, nelle quali il piccolo cerca di esprimere un proprio malessere o anche veicolare una protesta, e lo fa attraverso un comportamento alimentare alterato. I cosiddetti “capricci a tavola” vanno comunque considerati dei campanelli d’allarme, laddove, attraverso svariate anomalie nel rapporto con il cibo ( diffidenza e rifiuto verso cibi nuovi, preferenza verso cibi di un certo colore, paura di masticare..) persistono nel tempo ed in contesti diversi (scuola, famiglia, ecc).
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"Una madre e un padre attenti possono riconoscere se si tratta di comportamenti transitori, legati ad un periodo di maggior stanchezza fisica e/o psichica del figlio, relativa ad esempio all’inserimento al nido o alla materna, reattiva alla nascita di un fratellino. O ancora se il piccolo fatica ad accettare la separazione dalla mamma, ai cambiamenti legati alla ripresa del lavoro dopo il periodo di maternità e/o ad un trasloco. Va ricordato inoltre che la crescita implica fin dall’inizio, anche per il bambino, dover affrontare diversi compiti evolutivi che a volte sono dolorosi e faticosi. Pensiamo ad esempio allo svezzamento. Infatti un breve periodo di inappetenza durante l’introduzione delle pappe o dopo un influenza è fisiologico e non deve spaventare. Laddove invece esiste un problema più serio, il bambino mostra una rigida oppositività, un rifiuto più drastico o, viceversa, una voracità che lo spinge a riempirsi sempre la bocca" si scrive su affaritaliani.it. 

Quali sono le cause?

Ho studiato a lungo l'etiologia di questo fenomeno anche data l’elevata incidenza nella popolazione e la probabile multicausalità del fenomeno, risulta molto complesso.

In questa visione, alcune ricerche hanno messo in evidenza, come anche nella popolazione generale non clinica possano essere individuate delle caratteristiche sociali, culturali e personali che possano predisporre questo tipo di disturbo. Alcuni ricercatori, tra cui Lucas (1981) e Ponton (1996), sostenevano che esistesse un continuum che va dai DCA fino ai comportamenti alimentari corretti e che passa attraverso una serie di comportamenti che si discostano da quelli sano (Lombardo, Caiani e Vannucci, 1999). Questo non sembra del tutto confermato da McLaren (2001), il quale ha analizzato un gruppo clinico ed un gruppo di non clinico, tra i quali poteva distinguere una differenza sia quantitativa che qualitativa.
Gli studi mettono in evidenza vari tentativi di dare una struttura unica per definire e spiegare il fenomeno. Recentemente si è giunti a definire un modello etiopatogenetico di tipo biopsicosociale consensualmente condiviso, che trae origine dai dati di ricerche longitudinali e trasversali su campioni clinici e non. All’interno di questo modello, si distinguono fattori di rischio ambientali e personali.
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Tra i fattori ambientali vengono inserite le influenze socioculturali (come lo status socioeconomico, le influenze dei mass media e i modelli socialmente condivisi) oltre alle influenze relazionali della famiglia e del gruppo dei pari.
Mentre tra i fattori personali possiamo distinguere:
- i fattori biologici come le differenze di genere, le alterazione fisiologico-funzionali, le influenze genetiche, la distribuzione del grasso corporeo e lo sviluppo puberale;
- i fattori psicologici tra cui l’insoddisfazione corporea, l’autostima, l’instabilità affettiva, il perfezionismo, il narcisismo (McLauren, 2001);
- I fattori comportamentali come tendenza ad adottare comportamenti alimentari restrittivi, un inadeguato apporto nutrizionale ed uno stile di vita sedentario.

Tra i fattori di rischio psicologici, l’autostima sembra assumere un ruolo molto importante; infatti, alcuni studi longitudinali americani hanno messo in evidenza come le ragazze di 11-12 anni con un’autostima bassa, successivamente a 16 anni fossero più a rischio per lo sviluppo dei sintomi dei DCA. La letteratura mostra come l’influenza del livello di autostima possa svolgere un ruolo indiretto, nella etiologia dei DCA, mediante l’associazione ad altri fattori di rischio, come le componenti sociali del perfezionismo, la depressione e il rapporto con gli altri.
Correlazioni positive sono state riscontrate anche tra autostima e tendenza a praticare lo sport, Sauds et al. (1997) ed altri ricercatori hanno rilevato che le ragazze impegnate in un’attività sportiva presentavano un livello maggiore di autostima. Questo aspetto non appare del tutto chiaro in quanto alcuni studiosi hanno rilevato percentuali più elevate di DCA in gruppi di persone che praticavano sport (come la ginnastica artistica e il body bulding..).

Il ruolo dell’insoddisfazione corporea nella genesi dei disturbi alimentari è stato a lungo indagato ed i risultati indicano che questo predica in modo significativo lo sviluppo di sintomi DCA. Questo aspetto è più rilevante durante l’adolescenza, in cui, come sostiene Vagnoni (1999), il corpo assume un’importanza critica, diviene oggetto simbolico dell’immagine di sé.
E’ stata rilevata un’associazione tra insoddisfazione corporea e il sottoporsi a rigide diete dimagranti, ma anche alla distorsione dell’immagine corporea in popolazioni cliniche e non che Garner et al. (1981) suggeriscono di differenziare tra immagine affettiva (relativa alle sensazioni e agli stati d’animo) e percettiva (quella in cui il soggetto è incapace di valutare le dimensioni corporee).
Alla distorsione dell’immagine corporea di tipo affettivo sono correlate le emozioni negative, che spesso accompagnano gli episodi di binge eating; infatti l’alimentazione incontrollata sembra assumere un ruolo di rinforzo, procurando sollievo dalle emozioni negative precedenti. A questo proposito Western e collaboratori (2001) ritengono che le persone riescano a contenere le emozioni altrimenti incontrollabili attraverso comportamenti alimentari incontrollati.
Un ulteriore fattore di rischio è rappresentato dal perfezionismo che può essere distinto in due elementi: quello orientato verso sé, connesso con sintomi anoressici, e quello caratterizzato da componenti sociali che risulta correlato sia con l’anoressia che con la bulimia nevosa. Inoltre, il perfezionismo risulta correlato sia con l’autostima sia con i disturbi dell’immagine corporea nell’insorgenza dei disturbi alimentari. Rispetto a questo fattore la letteratura non è concorde nel definirlo un fattore di rischio o di mantenimento.
Alcuni recenti studi (McLauren,2001) mettono in luce come il narcisismo possa essere un altro probabile predittore se correlato con i disturbi dell’immagine corporea e una bassa autostima.

Durante l'infanzia questi elementi sono ancora a livello embrionale e sicuramente il ruolo della famiglia gioca un ruolo fondamentale sia nella strutturazione che nella destrutturazione dei fattori predisponenti.

Infine come uscirne... In un articolo interessante del Dott. Mori, sull'anoressia e bulimia afferma che:
"Il termine anoressia può essere fuorviante per la comprensione del fenomeno, poiché letteralmente significa perdita dell’appetito. Ciò che caratterizza l’anoressia è in realtà una fanatica ricerca della magrezza, connessa ad un’opprimente paura di ingrassare. Accanto a questi temi “ossessivi” per l’individuo anoressico, per poter porre la diagnosi è necessario che il soggetto abbia un peso corporeo al di sotto del 85% del normale valore rispetto all’età e all’altezza (oppure un indice di massa corporea al di sotto 17.5). Inoltre, per poter accertare l’anoressia, un’altro sintomo fondamentale, nei soggetti di sesso femminile (il 90-95% del totale), è l’amenorrea (perdita del normale ciclo mestruale).
Una delle maggiori esperte di disturbi alimentari, la psicoanalista Hilde Bruch, ha osservato che la preoccupazione per il cibo ed il peso, tipica dell’anoressia, rappresenta una manifestazione tardiva di un disturbo più profondo della propria identità. Nella maggior parte dei casi, i pazienti con anoressia nervosa hanno la ferma convinzione di essere completamente impotenti ed inefficaci. La patologia spesso si manifesta in “brave bambine” che hanno passato la loro vita cercando di compiacere i genitori, diventando improvvisamente testarde, negati viste e scontrose, durante l’adolescenza.
L’anoressia rappresenta una sorta di tentativo estremo di cura personale, finalizzato a sviluppare, attraverso la “disciplina sul corpo”, un senso di individualità e di sicurezza; sostanzialmente le pazienti trasformano la loro angoscia in preoccupazione per il peso e per il cibo, in modo tale da non doversene più occupare.
Numerose ricerche, condotte in diversi ambiti teorici della psicologia, hanno evidenziato come l’origine del disturbo sia legata ad una distorsione del rapporto tra il/la bambino/a e la madre. Nello specifico, la madre sembra prendersi cura del futuro paziente solo in funzione dei propri bisogni piuttosto che di quelli dell’infante. In realtà, ogni rapporto educativo “sano” tende all’ ”individuazione”, ovvero ad un graduale distaccamento dell’educato dall’educante, in modo tale che il primo raggiunga progressivamente una maggiore autonomia. Invece, la persona anoressica ha passato l’infanzia a percepirsi come una sorta di estensione della madre, un suo “braccio destro”, sentendo impedita la possibilità di esistere separatamente dalle necessità, i progetti e le apprensioni materne.
In questa prospettiva l’improvvisa diminuzione della nutrizione che viene messa in atto dal paziente, può essere interpretata come un ultimo tentativo per “farsi vedere” in famiglia come una persona che ha dei problemi propri; una di richiesta di questo tipo: “Occupatevi di me per quella che sono, non per come volete che io sia!”.
Alcuni rappresentanti della psicologia sistemica (Minuchin, 1978; Palazzoli, 1970) hanno confermato la descrizione del contesto familiare elaborata dalla Bruch. Questi autori hanno evidenziato un vero e proprio “modello familiare” dell’anoressia, caratterizzato dall’ “invischiamento”, ovvero da un eccessivo coinvolgimento di ciascun membro nella vita di tutti gli altri. L’aspetto principale è l’assenza di confini personali; i legami di dipendenza sono fortissimi, tutti la pensano allo stesso modo e non vengono accettate le differenze. Tipica è anche la posizione assunta dal padre all’interno della famiglia; questa persona appare più interessata e supportiva della madre, tuttavia solo superficialmente. Infatti, ogni qual volta la figlia ha “realmente bisogno” della figura paterna, questa si defila; inoltre, sembrano cercare nutrimento emotivo nella prole anziché offrirne. Sostanzialmente, entrambi i genitori provano una grande delusione rispetto al loro matrimonio, il che li porta a cercare sostegno emotivo nei figli.

Quando si innesca la patologia: l’inizio del disturbo

Nella pratica clinica con i pazienti che soffrono di disturbi alimentari, è comune riscontrare narrazioni di un preciso avvenimento o di un’osservazione che li ha fatti sentire troppo grassi ed a partire dal quale il problema si è manifestato; in realtà, questi commenti sono sempre l’ultima goccia che ha fatto traboccare il vaso. Come accennato in precedenza, questi episodi sono preceduti da profondi dubbi circa la propria persona e le proprie competenze. Per quanto vari siano gli avvenimenti esteriori che possono innescare la patologia, la causa denunciata non è quasi mai il fattore veramente responsabile. Nel loro modo di pensare concreto ed infantile, le anoressiche imputano al corpo il loro malessere, tentando di risolverlo su quel “terreno”.
Le anoressiche affermano all’unanimità che si limitano nel mangiare perché sono troppo grasse. Nella maggior parte dei casi, però, il peso è del tutto normale, ma le pazienti si comportano come se nessuno avesse mai detto loro che sviluppare certe curve e certe rotondità è parte di una normale pubertà. All’interno di una percezione corporea distorta, attribuiscono a se stesse la colpa dei loro difetti, veri o immaginari, e c’è un elemento veramente autopunitivo nel modo in cui si negano qualunque comodità o piacere.
Le preoccupazioni per il peso si attivano quando la persona è costretta ad affrontare nuove esperienze, ad esempio un campeggio, un nuovo sport o la partenza da casa per l’università. In queste situazioni si sentono in svantaggio, timorose di non riuscire, di non essere all’ “altezza delle circostanze”, finendo con lo spostare tutte le loro ansie di inadeguatezza sul peso e l’aspetto fisico.
Da questo punto di vista possiamo comprendere come la patologia sia un tentativo di arrestare il tempo, di non crescere per evitare di dover affrontare le responsabilità che la vita adulta ed adolescente mette loro davanti. Il ragionamento inconscio che le pazienti faticano a percepire è il seguente: “Fino a che sarò malata potrò sottrarmi al confronto!”.

Bulimia: caratteristiche personali e familiari di un disturbo eterogeneo

Da un punto di vista diagnostico, i pazienti bulimici vengono distinti da quelli anoressici sulla base di un peso relativamente normale e dalla presenza di abbuffate, che sono descritte come atti senza controllo. I soggetti molto sottopeso, che si “ingozzano” in modo incontrollato, sono classificati come anoressiche, sottogruppo bulimico.
Gli esperti concordano come tra i due gruppi clinici esista un considerevole legame; a conferma di ciò, risultano frequenti i passaggi che il paziente opera tra una categoria clinica e l’altra. Almeno il 40/50% delle persone anoressiche è anche bulimica e studi evidenziano come, con il passare del tempo, l’anoressia nervosa possa cedere il passo alla bulimia.
Un’altra ragione che ci porta ad affermare l’assenza di un confine stabile tra anoressia e bulimia è il fatto che il quadro clinico può essere assai vario. Spesso ad entrambi i problemi alimentari si associano disturbi d’ansia, disturbi di personalità, dipendenza e depressione.
Questa profonda eterogeneità della bulimia rende complesso effettuare un quadro generale delle caratteristiche familiari/relazionali che sono alla base del problema. Quello che possiamo asserire è che anoressia e bulimia sono facce “opposte” della stessa medaglia. Mentre la paziente anoressica è caratterizzata da una maggiore caparbietà e da un elevato grado di controllo su se stessa, i soggetti bulimici presentano una generalizzata incapacità di posticipare la soddisfazione degli impulsi, quindi sperimentano costantemente una perdita di controllo. Le abbuffate e l’uso di purganti non sono generalmente le uniche aree in cui le persone dimostrano l’impulsività; essa di solito riguarda anche i rapporti sessuali, comportamenti autolesionistici ed autodistruttivi, l’uso di sostanze.
Recenti ricerche evidenziano come problematiche familiari, esperienze di abuso fisico e sessuale, autostima negativa, siano tutti fattori associati con lo sviluppo della patologia. In particolare, una scarsa stima di sé favorisce un disturbo dell’alimentazione, distorcendo la visione che le ragazze hanno del loro aspetto fisico. Quello dell’alterazione nella percezione della propria immagine corporea è una delle caratteristiche che accomuna anoressia e bulimia. In una recente ricerca, in cui ai soggetti con disturbi alimentari vengono presentati immagini di corpi femminili con diverso peso corporeo, si chiedeva di scegliere quali disegni rappresentavano meglio il proprio peso e quali potevano indicare il loro aspetto ideale. Quello che è emerso, prevedibilmente, fu una sopravalutazione delle proprie dimensioni e la scelta di figure estremamente esili come ideale.
Ritornando alle caratteristiche della bulimia, dal punto di vista delle dinamiche familiari, si riscontrano anche in questo caso problemi di "invischiamento". In particolare, sia i genitori che le pazienti hanno difficoltà con le transizioni legate alla fase di separazione. Infatti, il disturbo spesso si manifesta quando i soggetti stanno per “uscire” dal ruolo di adolescenti, trovando lavoro, un partner stabile o trasferendosi altrove. Inoltre molte pazienti bulimiche vivono una mancanza di rispetto per i propri confini e un’intrusione grossolana della loro privacy, che si manifesta, da parte dei parenti, con abusi psicologici e, talvolta, fisici. Come nel caso delle pazienti anoressiche, ciascun membro della famiglia dipende esageratamente da tutti gli altri per mantenere un equilibrio; i genitori della famiglia bulimica hanno un inconscio bisogno che gli altri li vedano come “tutti buoni”. Le qualità non accettate vengono proiettate, trasferite, nella futura bambina bulimica, che diviene così l’unica depositaria della “cattiveria” e portatrice di tutta l’impulsività della famiglia, comportandosi di conseguenza. Si forma così un equilibrio in cui l’attenzione è rivolta alla “malattia” della figlia, piuttosto che sui conflitti presenti nei o tra i genitori.

Alcune considerazioni sulla terapia  

Date le implicazioni familiari che riguardano sia l’anoressia che la bulimia, riteniamo che il trattamento elettivo per questi disturbi sia la psicoterapia familiare, in particolare se il soggetto portatore dei sintomi vive ancora genitori. L’impossibilità di agire sulle motivazioni di tutti i membri, infatti, rende difficile scardinare i sintomi, che sono, di per sé, particolarmente resistenti al cambiamento.
Anche nel caso in cui si propenda per un intervento individuale, i tempi per una cura adeguata sono solitamente medio/lunghi. Scarsa sembra infatti l’efficacia di una “terapia breve”, dato che se non vengono presi in considerazione i sottostanti problemi del Sé (autostima, senso di impotenza, distorsioni relazionali) sono probabili ricadute. Inoltre, è fondamentale che nelle prime fasi dell’intervento (tranne nelle situazioni in cui è fortemente a rischio la salute del paziente) venga evitato un eccessivo investimento sul recupero del peso; il pericolo è che il terapeuta sia vissuto come l’ennesima figura genitoriale svalutante, che sa cosa è il meglio per il paziente" 

Per chi volesse approfondire:


2 commenti:

  1. Argomento delicatissimo e vastissimo che merita di essere approfondito.
    L'informazione e la possibilità di potersi confrontare con qualche esperto è fondamentale.
    Grazie!

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  2. Sono d'accordo sulla delicatezza e sulla vastità e sopratutto sul rischio di etichettare situazione transitorie e "normali" oppure di non dare il giusto peso là dove occorre e credo che il ricorso ad un "esperto" sia fondamentale, perchè anche in questo caso interventi precoci possono fare la differenza!
    A tal proposito i pediatri dovrebbero essere sensibilizzati ai "campanelli d'allarme" della patologia oppure alle ansie dei genitori che comunque devono essere accolte!

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